La Lettura – Bertolt Brecht: “Vita di Galileo”
Nel suo diario di lavoro, alla data 23 novembre 1938, Bertolt Brecht annotò: “Ultimata la Vita di Galileo. Mi ci sono volute tre settimane…”. Tuttavia, il celebre drammaturgo tedesco rielaborò il testo più volte fino a pochi mesi prima della morte, sempre insoddisfatto della riuscita della sua opera teatrale. Brecht si era interessato alla figura dello scienziato pisano già nel ’33, in occasione del trecentenario del processo dinanzi all’Inquisizione, ma approdò alla scrittura del dramma soltanto cinque anni più tardi, in un momento storico in cui la comunità scientifica tedesca era ideologicamente snaturata dal regime nazista, piegata a mezzo di dimostrazione delle tesi circa la supremazia della razza ariana e alla collaborazione ai piani di armamento hitleriani. Brecht vide in Galileo Galilei l’esempio di un tenace e abile servo della verità: lo scienziato che abiurò per poter continuare a lavorare e non essere molestato dai suoi persecutori (“meglio con le mani sporche che vuote”, dirà nell’opera), che pur fiaccato dagli strumenti di tortura continuò nascostamente a ricercare la verità, fino a compromettere la sua salute già precaria. Insomma, Brecht ci consegna un ritratto realistico, ricco di sfaccettature e di contraddizioni, di un uomo gioioso, fortemente attratto dai piaceri materiali della vita, vanitoso; ma un maestro che credeva profondamente nella transitorietà e mutabilità dell’ordine costituito rappresentato dalla Chiesa, nell’autonomia della morale, nella libertà della ricerca scientifica, nell’uomo e nella sua ragione. Al monaco Fulgenzio, che gli chiede se non sia il caso che la verità si faccia strada da sola anche senza di lui, Galileo ribatte con forza: “No, no, no! La verità riesce ad imporsi solo nella misura in cui noi la imponiamo; la vittoria della ragione non può essere che la vittoria di coloro che ragionano”.